Smart working: un’opportunità, ma attenzione ai rischi psico-sociali

Il 2020 è stato un anno che ha rappresentato un punto di svolta per tutto il mondo: la pandemia di Covid-19 ha paralizzato intere nazioni, sia dal punto di vista economico che lavorativo. I primi mesi sono stati veramente complicati, non si era pronti ad affrontare una “chiusura” tanto drastica. Come ben sappiamo il termine chiusura non è solamente una metafora, ma è stato applicato in maniera letterale ad ogni aspetto della sfera antropologica: visitare i parenti, andare a fare la spesa, passeggiare con gli amici, prendere un autobus, andare al lavoro, frequentare la scuola. 

Con non poche difficoltà, con il passare delle settimane e persino dei mesi, si è cercato di ovviare a questo scenario e si sono studiate strategie adeguate a bypassare gli ostacoli “fisici” allo svolgimento di alcune di queste attività. Il mezzo, lo strumento che si è rivelato maggiormente confacente a tale scopo è stato quello informatico. Grazie ai PC, tablet, smartphone è stato possibile creare le condizioni per riprendere attività quotidiane come il seguire le lezioni scolastiche e l’assoluzione dei doveri lavorativi da parte di coloro che si trovavano ad operare negli uffici delle più svariate categorie di lavoro. Si è diffusa la prassi dello smart working (lavoro intelligente). Il termine è stato coniato dai ricercatori del Politecnico di Milano, per definire il lavoro agile, distribuito in modo flessibile, senza rigidità d’orario [1].

In realtà esisteva già da diversi anni nei paesi anglosassoni un concetto simile, quello del remote working (lavoro a distanza), che non è stato però mai normato. Mentre in Italia esisteva già una forma di lavoro simile, presente nel D.P.R. n 70 del 1999 e normato da un accordo europeo del 2002 e recepito nel 2004: il telelavoro. Questo istituto giuridico prevedeva: «L’allestimento di postazioni fisse a domicilio, secondo tutte le normative sulla salute e sicurezza, dove il dipendente lo richiede può espletare le medesime funzioni dell’ufficio, con i medesimi strumenti e negli stessi intervalli di tempo. Questa soluzione rigida e normata non è mai decollata in Italia» [2] perché ritenuta troppo rigida e poco economica, visto che ne conseguivano maggiori spese per i datori di lavoro e disagi ai lavoratori che erano costretti a ritagliare uno spazio fisico nelle proprie case per lo svolgimento di un lavoro che li vedeva presi da un senso di isolamento.

Nel 2014 viene depositata dalle deputate Alessia Mosca, Barbara Saltamartini e Irene Tinagli, una proposta di legge sullo smart working che rappresentava «un passo fondamentale proprio verso i concetti di autonomia, responsabilità, agilità e flessibilità organizzativa, pur all’interno di rapporti subordinati, tradotta in legge nel maggio 2017»[3]. La Legge 81/2017 parla di «rapporto di lavoro subordinato mediante accordo tra le parti, senza precisi vincoli spazio-temporali di esecuzione delle mansioni, con utilizzo di mezzi tecnologici a supporto di questa flessibilità e secondo una organizzazione del lavoro per obbiettivi e responsabilizzazione» [4]. Da ciò desumiamo che la necessità di forme di lavoro flessibili, era sentita già ben prima della crisi pandemica, fattore rilevante ai fini dell’analisi sociologica di questa nuova opzione lavorativa. 

Ma lo smart working che implicazioni può avere? Che opportunità può offrire? E di contro: che svantaggi ne possono derivare? È interessante soffermarsi sull’analisi di un aspetto di non poco conto: l’aiuto alle donne. In un paese in cui la natalità è sempre in maggiore calo, aiutare le donne a lavorare da casa, con la possibilità di seguire i propri figli, sarebbe un grande sostegno economico e sociale. Il non doversi spostare, evitando di immettersi nel traffico, permetterebbe risparmio di tempo, soldi e meno inquinamento. Per un datore di lavoro che avrebbe tutti i dipendenti dislocati nei propri domicili, sarebbe un risparmio il non dover pagare l’affitto di un locale adibito al lavoro. Il non pagare la locazione, le bollette, potrebbe aiutare il dirigente ad assumere un maggiore numero di dipendenti che, viste anche le condizioni favorevoli, tenderebbero ad assentarsi di meno. Un aspetto contrario, da prendere seriamente in considerazione, è che lavorare da casa potrebbe portare ad avere scarse relazioni sociali. Dal 1° gennaio 2024, il Ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo ha dichiarato concluso lo smart working nelle amministrazioni pubbliche, ma con delle indicazioni che non sempre vengono rispettate [5]. Per quanto riguarda il privato, invece, si protrarrà per coloro che hanno figli minori under 14, e i lavoratori fragili, sino al 31 marzo 2024 [6].

L’era digitale ha apportato molteplici innovazioni non solo nel settore lavorativo, ma in tantissimi altri ambiti relativi alla vita delle persone. Non dobbiamo cadere nella tentazione comune di demonizzare questa nuova realtà, anche se, come abbiamo scoperto, affonda le sue radici già negli anni Novanta. Senza dimenticare i rischi psico-sociali, essa può offrire opportunità reali e soluzioni concrete a diverse problematiche attuali.


Maria Itria Mureddu

Laboratorio di tecniche e dinamiche

 della comunicazione interpersonale.

Quali relazioni nell’era del digitale

e dell’Intelligenza artificiale?

Docente: Prof. Giuseppe Pani


Istituto Superiore Scienze Religiose

Sassari - Tempio Ampurias

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[1] Cfr. G. Fiertler, Dal remote working allo smart working: così il lavoro si mette al passo con l’era digitale, https://peoplechange360.it, 20-01-2024.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Legge, 22 maggio 2017, n. 81.

[5] «A fronte della mancata proroga è nata la cosiddetta direttiva Zangrillo, emanata proprio dal ministro della Pa il 29 dicembre. Il provvedimento si rivolge alle amministrazioni pubbliche e prevede di poter superare il principio della “prevalenza della presenza in sede rispetto a quella in lavoro agile”, statuito nei mesi scorsi dall’ex ministro Brunetta come norma generale. Questo significa che c’è la possibilità di prevedere il mantenimento in lavoro agile per i lavoratori fragili, ma il numero di giorni autorizzabili può essere diverso a seconda dall’amministrazione e, all’interno della stessa, anche dei singoli uffici. La direttiva presenta comunque alcune criticità: la mancata copertura per il personale scolastico, una buona dose di flessibilità lasciata ai singoli enti (e dirigenti) e una certa genericità sulla portata del superamento della prevalenza della presenza in sede per il personale fragile. Anche se elimina la differenza di condizioni per i lavoratori (sia interni alla Pa sia tra pubblico e privato), tale direttiva non risulta comunque adottata in buona parte delle amministrazioni che, o l’hanno ignorata del tutto, oppure la applicano in modo forzosamente riduttivo. A segnalare tale situazione è uno studio della Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche» (L. Mazza, Smart working e lavoratori fragili: nella PA si ignora la direttiva Zangrillo, https://www.avvenire.it/economia/pagine/smart-working-e-lavoratori-fragli-nella-pa-c-e-chi-ignora-la-direttiva, 22-01-2024).

[6] Ibid.