Cristo non ci salva "dalla" morte, ma "nella" morte

Una certa spiritualità cristiana, sponsorizzata anche da qualche media cattolico molto “ascoltato”, continua a dare  – anche in questa nuova ondata della pandemia – risposte semplicistiche al patire e al morire: «Quanto più soffri, tanto più ti redimi». Una fede più autenticamente biblica non svuota mai la sofferta realtà del morire esaltandola con la promessa del Paradiso; piuttosto, l’assume pienamente, ne porta il tragico peso soprattutto quando ci si trova di fronte a una morte violenta, prematura o causata da un’assurda infezione.
La fede biblica valorizza la vita: “vivere” significa essere in relazione col prossimo, la comunità e Dio. Chi sperimenta la morte non si deve sentire condannato da Dio, semplicemente sperimenta in modo drammatico la fragilità, l’ "assenza di relazione". Per questo motivo, il messaggio cristiano afferma che Cristo non ci salva "dalla morte", ma "nella morte": morendo lui stesso, e facendo passare anche noi attraverso le nostre morti quotidiane, ci spalanca – anche su questa terra – le porte della vita eterna. Possiamo attraversare la morte certi che dopo non ci sarà il nulla, ma la vita: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).



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Le apparizioni di Cristo risorto sono accompagnate da segni concreti, come nel noto episodio dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-53). Perché il gesto dello “spezzare il pane”, del mangiare insieme? Per togliere alla morte ciò che di essa spaventa maggiormente: «L’assenza di relazione, l’interruzione del rapporto con se stessi, con gli altri, con Dio. Alla luce della fede questo è possibile attraverso la via della solidarietà, dell’essere vicino: mantenendo viva la relazione, fatta di prossimità» (A. Toniolo) .
don Giuseppe Pani