Giornata per la custodia del Creato: uscire e contemplare

Uscire fuori” è una sollecitazione permanente: vediamo, osserviamo, ma senza possedere nulla perché «noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data. Ciò consente di rispondere a un’ac­cusa lanciata contro il pensiero ebraico-cristiano: è stato detto che, a partire dal racconto della Ge­nesi che invita a soggiogare la terra (cfr. Gen 1,28), verrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio del­la natura presentando un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore. Questa non è una corretta interpretazione della Bibbia come la intende la Chiesa» (Laudato si’, 67). Quest’ultima, infatti, ricorda a ognuno il dovere di prendersi cura della natura, ma al tempo stesso «deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso» Laudato si’, 79).

Vivere all’aperto in questa strana estate, guardando talvolta le stelle dalla prospettiva del sacco a pelo, ci ha portato in dono l’incalzare di nuove domande. Gli interrogativi esistenziali, infatti, non nascono seduti sulla scrivania della sacrestia o nella cattedra di un’aula; sono come gli alberi: hanno bisogno di aria, acqua, sole. Immersi nella contemplazione, spesso in perfetto equilibrio tra cielo, terra e mare, i quesiti di papa Francesco risuonano ancora più forti. Ci siamo chiesti: «Che tipo di mondo desideriamo trasmet­tere a coloro che verranno dopo di noi, ai bam­bini che stanno crescendo?» (Laudato si’, 160). Lasciare una bella eredità richiama sempre qualcosa di più generale: valori, senso e testimonianza.

Le “uscite” in montagna ci hanno invitato ad ammirare subito il cielo. Alto sulla nostra testa, lo vediamo muoversi variando i suoi colori. Nei giorni fortunati possiamo salirci camminando sull’arcobaleno, l’anello dell’alleanza voluto da Dio, il ponte tra il basso e l’alto: «Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. […] Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi» (Gen 9,13-14). Nel blu gli uccelli volteggiano, salgono, scendono, giocano, si rincorrono incuranti di pericoli e di vertigini, come se danzassero. La creazione è la loro casa, vivono in comunione con tutto ciò che li circonda. L’alba, poi, ci insegna che il sole è modello di generosità: riempie del suo calore tutti, non fa privilegi. Il tramonto, con la sua luce soffusa e calda che “veste” rocce e valli, evoca in noi messaggi di pace, di riposo, di magnifica riconciliazione: «È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui (Cristo) tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,19-20).

Comprendiamo il Creato quando il nostro occhio esteriore, guidato dagli occhi del cuore, riesce a catturare l’identità delle cose, la loro vita segreta: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27).

Meditiamo guardando un albero, magari all’apparenza immobile per mancanza di vento, ma che impercettibilmente ha dentro di sé un movimento inarrestabile, quello della linfa, della vita. Ripensiamo, quindi, a quelle volte che – anche soltanto per un attimo – non abbiamo visto il “movimento” e la “vita” in un peccatore pentito, in un malato terminale, nei nostri limiti.

Osserviamo il bosco e capiamo che la natura è paziente: piante secolari che hanno resistito a nevicate, diluvi, raffiche di vento. Spesso, invece, di fronte alle prove della vita il filo della nostra pazienza si è spezzato.

Guardiamo, poi, un fiore e comprendiamo che Dio è stato il primo artista a creare dei capolavori in miniatura. I criteri della grandiosità e dell’imponenza non sono gli unici a render ragione della sua gloria, soprattutto nella storia e nella vita degli uomini. Nella Sacra Scrittura c’è una predilezione evidente per tutto ciò che è piccolo; lo stesso regno di Dio è paragonato a un piccolissimo granello di senape. Dice Gesù: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (Mc 4,30-32). Non è necessario strappare il fiore, meglio avvicinarsi per sentirne soltanto il profumo: ciò che è “piccolo”, “fragile” deve essere sempre amato. La contemplazione del Creato, ci permette, quindi, di essere “divini”, di ascoltare il grido di ogni “piccolo” in croce («Gesù, dando un forte grido, spirò», Mc 15,37), di essere eco per chi vuol essere liberato da una vita d’inferno. «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (Laudato si’, 49). Ci ricorda, poi, che l’ospitalità non è una categoria secondaria; anzi, rappresenta la nostra stessa condizione umana: come accogliamo qualcuno nella nostra casa, la natura ci ospita nel suo grembo. In una sua meditazione, Bonhoeffer afferma: «Sono un ospite sulla terra […]. Come ospite sono sottoposto alle leggi del luogo che mi dà alloggio. La terra che mi nutre avanza un diritto sul mio lavoro e sulle mie energie. Non spetta a me disprezzare la terra sulla quale ho la possibilità di vivere. Le devo fedeltà e gratitudine. Non posso sottrarmi alla mia sorte, per cui sono necessariamente ospite e straniero, né all’appello di Dio che mi raggiunge in questa posizione di straniero, con il vivere trasognato della vita, pensando al cielo. […] Devo essere ospite con tutto ciò che questo implica».

Giuseppe Pani