Gosos: "Elementi vivi di una cultura, di una fede, di un credo condiviso"

Abbiamo incontrato don Roberto Caria, docente di teologia nella Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, e studioso dei gosos, canti paraliturgici che, dopo cinque secoli di storia, “celebrano” ancora i santi della nostra Isola.

In quale periodo storico nacque questa modalità di canto? Com'è arrivato in Sardegna?

«Intanto permettetemi un chiarimento etimologico, in riferimento ai gosos (goccius in campidanese, ma indicati anche con crùbas o laudes): il termine gosos deriva dal castigliano gozos, mentre il campidanese goccius origina dal catalano goigs, ma entrambi hanno radici nel latino gaudium. Si tratta di canti paraliturgici e devozionali prevalentemente di tradizione orale, tuttora in uso, anzi negli ultimi decenni è avvenuta una vera e propria rinascita e riscoperta del canto devozionale. La Sardegna, grazie anche alla sua insularità, ha conservato un vasto patrimonio di canti e musiche trasmesse oralmente (pensiamo al canto del Rosario in limba con cui si accompagnano le processioni religiose). Uno dei maggiori esperti di storia della musica in Sardegna è prof. Giampaolo Mele, dell’Università di Sassari. Lui ritiene che lo stretto collegamento di tale forma di poesia religiosa con le analoghe forme ispaniche, fa pensare ad una derivazione diretta soprattutto dai goigs catalani (attestati già in fonti medievali, come nel Libre Vermell di Montserrat, del XIV secolo), anche se non mancano tracce linguistiche e musicali che rimandano a laudi religiose pre-ispaniche con forti caratteristiche locali sarde. Dunque non è esagerato teorizzare, secondo Mele, che una melodia sarda possa essere stata in qualche modo accolta presso la corte alfonsina. Questo contribuirebbe a sfatare anche il mito esterofilo che ogni elemento culturale sardo sia sempre giunto dall’esterno e non sia invece una costruzione-elaborazione interna».

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don Roberto Caria


Venne adottato come modalità di evangelizzazione, considerando il canto il modo più semplice per arrivare al cuore, alla “memoria” delle persone?

«Si hanno tracce di laudes già in epoca medievale, ma finora si considerano i goigs catalani della Vergine della Mercede (Mare de Déu de la Mercè) pubblicati da Antioco Brondo nel 1604 a Cagliari, come la più antica attestazione scritta di gosos nell’isola. Mentre la raccolta più antica raccolta finora conosciuta è del sarto Maurizio Carrus di San Vero Milis, contenente i gòsos della Confraternita (tre manoscritti in castigliano, datati 1718, 1727 e 1731). La capillare diffusione in Sardegna di questi canti devozionali si ha con la Controriforma seguita al Concilio di Trento (concluso nel 1563), quando gesuiti, francescani e domenicani soprattutto si adoperarono per un nuovo slancio missionario interno all’Europa e quindi anche interno alla Sardegna. È l’epoca in cui rifioriscono le Confraternite e grazie a loro anche il canto legato alle feste principali della Madonna e dei Santi patroni, e in particolare il canto in limba della Settimana Santa (sa chida santa). Mi piace una definizione dei gosos data dal citato prof. Mele, perché la ritengo la più esaustiva: lezionari agiografici popolari in pillole, una sorta di “Bibbia” dei semplici, a cui attingere per alimentare la fede in Sardegna attraverso racconti di santi, le virtù della Madonna, le sue gioie e i suoi dolori, nonché i principi della dottrina. Anche la struttura metrica e la melodia è pensata in funzione della memorizzazione accessibile a tutti, anche agli illetterati: una quartina iniziale (di cui le ultime due righe costituiscono il ritornello detto sa torrada) seguita dalle strofe in genere sestine di ottonari (ma non sono rari nemmeno i settenari, i senari o addirittura endecasillabi), con diversa articolazione delle rime. L’ottonario è riconosciuto universalmente come il verso più facile da memorizzare».


A chi venne affidata la loro creazione e diffusione? Ai sacerdoti o alle confraternite?

«Dice don Antonio Pinna, biblista e anche studioso della lingua e dei testi dei gosos, che per il loro contesto sociale di produzione e di uso e per il loro sviluppo, i gosos fanno parte sia di una tradizione orale sia di una tradizione scritta. La loro scrittura veniva affidata in genere a persone colte e istruite con buona conoscenza biblica, teologica e agiografica. Era ed è necessario, nella stesura del testo, saper ricorrere alle fonti della vita del santo di cui nelle strofe venivano cantate le virtù morali e spirituali. Tra questi autori spicca il nome di Bonaventura Licheri di Neoneli (1688-1733), autore tra l’altro dei meravigliosi gosos de Su santissumu Sacramentu e in particolare dei più noti canti della Settimana Santa (tra i quali Sette ispadas de dolore e No mi giamedas Maria). Le confraternite furono veicolo principale per la diffusione dei canti devozionali presso il popolo, compresi i gosos, nella liturgia e nella paraliturgia. In Sardegna, sappiamo che le confraternite si distinguono da subito tra confraternite “de habit” e “ de cap”, vale a dire tra confraternite religiose e corporazioni di arti e mestieri (detti anche “gremi”). Le confraternite religiose si svilupparono nel tardo medioevo e di diffusero in modo capillare soprattutto dopo il Concilio di Trento. Nell’isola si nota una maggiore diffusione della confraternita di S. Croce nel centro-nord e della confraternita del Rosario nel centro-sud».


La modalità con cui vengono cantate le laudes hanno un nesso con il canto a cuncordu delle confraternite?

«È necessario distingue la ricca tradizione del canto profano a tenores dall’altrettanto ricca tradizione del canto religioso detto a cuncordu, a cuntrattu o a traggiu. Nel canto a cuncordu scompare l’uso del basso gutturale tipico dei tenores. I diversi momenti dei riti paraliturgici della Settimana Santa ed in particolare del Venerdì Santo prevedono uno specifico canto a cuncordu con versioni locali del Miserere, dello Stabat Mater e dello Iesu. Ricordiamo, tra le più antiche e di tradizione ininterrotta, le confraternite della Santa Croce di Castelsardo e di Orosei, Su cuncordu ‘e su Rosariu di Santulussurgiu. In pratica il canto scandisce i tempi dell’azione rituale e rivela con sentimento il senso dell’azione simbolica rappresentata, coinvolgendo la devota partecipazione dei fedeli. Nell’esecuzione dei canti, i cantori devono rispettare delle norme condivise secondo la tradizione orale, al punto che nei giorni successivi vengono attentamente giudicati dai fedeli».


Questa nostra tradizione canora riuscirà a non scomparire?

«Sono sicuro che non solo questa ricca e culturalmente feconda tradizione non scomparirà, ma che troverà nuova linfa vitale grazie ad un impegno comunitario e dei singoli. Il Concilio Plenario Sardo del 2001 riconosce che: Il popolo sardo è sempre stato un popolo con una religiosità innata, intimamente e quasi pudicamente vissuta a livello personale, eppure manifestata ed espressa in forme artistiche e corali di grande e fervente celebrazione. Esso custodisce un suo millenario patrimonio di tradizioni religiose cristiane (n. 112).  In sostanza è stato avviato negli ultimi vent’anni un percorso di ricerca e di rivitalizzazione della pratica dei gosos che vede all’opera un rigoroso lavoro scientifico di studio dei testi e della musica e di nuove composizioni. Il tutto con l’impegno di favorire il raccordo tra pietà popolare, liturgia ufficiale, cultura poetica, tradizionale musicale e vita quotidiana delle comunità. È auspicabile – dice ancora il Concilio al n. 116 – che si possa anche giungere a catalogare e selezionare adeguatamente canti (gosos e lodi), testi delle novene, formule di preghiere e formule catechistiche. Evitando un rischio: Al patrimonio di gosos, inni, novene e al calendario delle feste popolari, deve essere evitato il pericolo di una semplice catalogazione archivistica e di una conservazione ed esposizione museale. Esso deve rimanere espressione dell’autentica, viva e attuale ricerca di Dio, da parte del popolo in Sardegna. Questi canti, come gli altri elementi della tradizione culturale, scompariranno se si pensa di farne solo degli "oggetti" da museo. Rimarranno ancora elementi vivi di una cultura, di una fede, di un credo condiviso se le comunità si impegneranno a praticarli, cantarli, studiarli, tramandarli. Il Concilio Sardo traccia il solco da seguire nel futuro e fa sintesi di quanto in diverse parti dell’isola si è iniziato a fare, per iniziativa di singoli studiosi, parroci, associazioni culturali, enti locali. Tra queste, mi permetto di segnalare un percorso fruttuoso compiuto da me, prof. Mele e don Pinna a Senis (OR) tra il 2003 e il 2010. Per iniziativa della Parrocchia e del Comune e in collaborazione con gli studiosi citati, si è dato vita a un forum di ricerca sui gosos denominato Sa Pratza de Preguntas e Torradas. Allo studio di critica testuale dei gosos finora conosciuti, si è accostato il coinvolgimento di poeti e musicisti per comporre nuovi testi e sperimentare nuove melodie. Dal 2004 a Senis per la festa patronale si cantano i gosos composti dal compianto sacerdote Salvatorangelo Chessa di Orune. Da quella esperienza nacque anche un testo molto citato negli studi successivi che raccoglie gli Atti del Convegno del 2003: R. Caria (a cura di), I gosos fattore unificante delle tradizioni culturali e cultuali della Sardegna, PTM, Mogoro 2004». 

Associazione culturale La Lucerna - Norbello