Intervista al Professore Fernando De Luca «Alterare il passato significa mettere il paraocchi al presente»
Fernando De Luca, romano, è diplomato in pianoforte con la Professoressa Velia De Vita e in clavicembalo con la Professoressa Paola Bernardi. Nel 1992 ha conseguito il premio M. Intendente dato dall’Associazione Musicale Romana quale miglior diploma del Conservatorio “Santa Cecilia”. Si è esibito, in particolare, al Festival Barocco del Salento, a Villa Medici, e per l’Accademia Barocca di Santa Cecilia. Dopo anni al Conservatorio “G. P. da Palestrina” di Cagliari, attualmente insegna al Conservatorio di Alessandria. È un esperto conoscitore del repertorio clavicembalistico francese e di Domenico Scarlatti.
Come descrive il clavicembalo ai suoi allievi?
«Innanzitutto cerco di inquadrare lo
strumento dal punto di vista storico: la sua origine, lo sviluppo nel tempo. Si
ha l’idea approssimativa che il clavicembalo sia l’antenato del pianoforte. In
realtà, discendono entrambi dal salterio, strumento portato in Europa dagli
arabi durante la dominazione iberica. La prima cosa che faccio vedere agli
studenti è la meccanica strumentale: delle corde, che vibrando producono i
suoni, sono a diretto contatto con la tastiera. Il clavicembalista quindi “sente”
proprio in maniera fisica la corda. Non avviene così, ad esempio, con il
pianoforte, perché il rapporto tra tasto e corda è mediato da dei martelletti».
Prof. Fernando De Luca
Quando è nata la sua passione per questo strumento?
«Sono nato a Roma, la culla del Barocco. Abitavo vicino alla residenza che fu di Prudenza Gabrielli Capizucchi, una delle prime donne ad entrare nell’Accademia dell’Arcadia. Sempre là c’era il collegio americano del Gianicolo, da cui sentivo spesso suonare l’organo che eseguiva musiche di autori come Bach. La mia infanzia è quindi sempre stata intrisa della coscienza storica del luogo in cui mi trovavo. Un giorno uno studente del collegio mi fece sentire i Concerti Grossi di Arcangelo Corelli, e mi colpì un suono che, all’interno dell’orchestra composta da archi, fungeva da “collante” interno alla musica. Era il clavicembalo, strumento d’antonomasia del Seicento».
Quali sono le prerogative della sua esperienza artistica?
«La mia è una mera ricerca interiore per
ritrovare quel periodo e quello spirito “arcadico”: viviamo in un’epoca
atrofizzata dai rumori e dalla velocità. Ad esempio, il rumore di certi
elettrodomestici: noi non lo udiamo perché ci siamo abituati, ma un uomo del
Settecento addirittura si infastidirebbe. Bisogna cercare di entrare in
simbiosi con la cultura del periodo e con gli autori. Certi interpreti odierni hanno
un atteggiamento parassitario. Sento dire che “una volta che Bach ha dato la
sua musica all’umanità, non gli appartiene più”: questa frase nasconde il
pensiero secondo cui con la musica si può fare ciò che si vuole, eseguendola
secondo i nostri canoni e non seguendo lo spirito dell’autore. È ovvio che noi
non riusciremo mai a capire del tutto come suonare un brano di epoche passate,
ma abbiamo il dovere di avvicinarci il più possibile ad esse. Alterare il
passato significa mettere il paraocchi al presente. La musica, purtroppo, può
essere profanata in ogni momento».
La musica è pressoché assente dalle scuole italiane. Secondo lei perché?
«In Italia abbiamo tre figure storiche, che non intendo denigrare, ma che hanno creato una considerazione feroce della musica. Parlo di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Giovanni Gentile. De Sanctis, nel 1861, dice che bisogna togliere certe materie dalle scuole: il francese, la ginnastica, il ballo e la musica. Croce non considerava la musica un’arte: non notava però che i grandi come Carlo Rainaldi, il Bernini, Galilei, lo stesso Dante conoscevano molto bene il mondo dei suoni. Gentile, autore della famosa riforma della scuola, inserì la musica nei licei soltanto alle magistrali, insieme all’insegnamento del taglio e cucito. In breve, la considerava roba da “donnette”. Ne consegue che per sessant’anni i cittadini e la classe politica italiana conoscevano alla perfezione Michelangelo, ma non hanno mai avuto idea di chi fosse Claudio Monteverdi. Ancora oggi non si considera la musica un vero lavoro, ma un momento ludico. Non è così: si fatica tantissimo».
Nei suoi concerti si nota una ricerca anche estetica del periodo: si veste con abiti d’epoca, illumina la sala con le candele …
«Si è creata un’estetica, nato dal Positivismo, per cui il frac è per antonomasia l’abito del concertista. Ritengo però insensato suonare Scarlatti o Couperin, barocchi, vestendomi secondo canoni odierni. Non lo faccio per apparire, come possono pensare alcuni. Quando faccio un concerto di notte, uso le candele perché tutto ha un altro senso, i colori del mio abito acquistano un tono particolare. Il lume di candela dona un benessere e una percezione del colore che la luce elettrica, che appiattisce tutto, non dà».
Cosa spera di trasmettere ai giovani?
«La curiosità è il volano della mia
esistenza, fin da piccolo. Cercare è la cosa più importante. Non fermarsi mai,
non dare nulla per scontato. I giovani non si devono abbandonare alle logiche
del sistema. Più di tutti dovrebbero mettere in discussione il mondo in cui ci
troviamo».
Riccardo Rosas