L'indifferenza è la malattia più grave dell'anima

«Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui», leggiamo nel libro del Deuteronomio. Nel vangelo di questa domenica, Gesù afferma: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

La correzione fraterna è sempre discreta, ispirata a soccorrere e non a condannare chi ha sbagliato. Da notare che, malgrado l’atteggiamento del peccatore provochi una ferita alla comunità, è chiamato “fratello”. Non prevale la colpa, ma la comunità fraterna. Il nostro atteggiamento è spesso opposto a quello evangelico: di fronte all’errore di un “fratello”, se ne parla senza tregua, lo si pubblicizza anche sui social ricamandoci senza alcuna pietà. Non siamo esenti da responsabilità: ognuno di noi assume la funzione di information broker, di “raccoglitore” di notizie pubbliche e private da destinare a terzi. La “voce” ha i suoi punti di diramazione: cene tra amici, luoghi d’attesa, bar, raduni collettivi (messe comprese) dove, in realtà, non c’è mai il primo soggetto parlante, l’origine del male, del pettegolezzo. La prima fonte del pettegolezzo è quasi sempre un mistero: meriterebbe un approfondimento in una trasmissione di Roberto Giacobbo. Se ci capita di sentire qualcosa di negativo su una persona, applichiamo una nota massima del libro del Siracide: «Hai udito una parola? Muoia con te! Sta’ sicuro, non ti farà scoppiare» (19,10).

Inoltre, di solito giudichiamo  un “male” qualcosa che non rientra nei nostri stili e schemi. Il diritto alla parola, alla verità ci obbliga a dire la nostra e poco importa se offendiamo qualcuno: la verità si afferra col manico della carità. Si corregge per amore, non per vendetta o perché pensiamo di essere migliori, perfetti rispetto agli altri. Siamo molto simili al fratello maggiore della parabola del padre buono e dei due fratelli.  In questo personaggio la perfezione sembra aver cancellato le sue emozioni, i suoi sentimenti. Nessuno di noi è perfetto. Siamo tutti perfettibili.

La Chiesa ha camminato nella sua storia su due strade: l’emarginazione o l’integrazione. Malgrado siano state praticate entrambe, non hanno la stessa consistenza biblica e teologica. Soltanto il sentiero dell’integrazione, capace di comprendere le difficili situazioni esistenziali e le conseguenti sofferenze, rivela la misericordia di Cristo: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano». Il Messia non accetta che la sua comunità si rassegni al peccato, altrimenti l’indifferenza – la più grave malattia dell’anima – diventerebbe la regola. La comunità deve prendere le distanze dal peccato, ma l’esclusione del peccatore lascia aperta la porta al suo reinserimento. Il pagano e il pubblicano, cioè coloro che non si sentono amati, possono cambiare vita attraverso un’overdose d’amore. Quando la Chiesa infligge una “pena”, lo scopo è esclusivamente educativo, medicinale e non punitivo. Non si tratta di “convertire con violenza” (esistono dei cristiani talmente motivati da asfissiare il prossimo), ma di creare un incontro di volti: «L’essere umano non ha soltanto un corpo, ma anche un volto. Un volto non può essere trapiantato o scambiato con un altro. Un volto è un messaggio, spesso all’insaputa della stessa persona. Non è forse un volto umano un misto vivente di mistero e di significato? Tutti lo vediamo e nessuno riesce a descriverlo. Non è forse un miracolo straordinario che tra tante centinaia di milioni di volti non ve ne siano due uguali? E che nessun volto rimanga perfettamente uguale per più di un attimo? È la parte del corpo più esposta, la più nota, ed è anche la meno descrivibile, un’incarnazione dell’unicità. Chi può guardare un volto come se fosse un luogo comune?» (Abraham J. Heschel).

I volti si incontrano attraverso la preghiera: «In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Viene usato il verbo symphoneo, che richiama l’accordarsi degli strumenti di un’orchestra. Si prega insieme, per restare uniti,  per il ritorno del fratello: soltanto attraverso una sinfonia d’amore, e non di giudizio, si rende presente la misericordia divina. La Chiesa è una comunità di guarigione, nella quale la correzione fraterna svela il vero  “volto” del Signore.  

 

Don Giuseppe Pani