L’uomo vive quando pensa agli altri

Nella liturgia della Parola di questa domenica, il profeta Geremia esprime la propria amarezza nei confronti di Dio: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Quando parlo devo urlare, gridare: “Violenza! Oppressione!». Nella Bibbia la tematica del grido è centrale ed è unita spesso alle lacrime che ingolfano gli occhi, a gocce d’acqua trasparenti che, pur accecando le pupille, cercano la luce del Creatore: geografia perfetta della relazione tra umano e divino. Nel libro di Giobbe il protagonista afferma: «Non terrò chiusa la mia bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore!» (Gb 7,11). Così si è espresso papa Francesco: «Si prega con la realtà. La vera preghiera viene dal cuore, dal momento che uno vive. È la preghiera nei momenti del buio, nei momenti della vita dove non c’è speranza, non si vede l’orizzonte. E tanta gente, tanta oggi, è nella situazione di Giobbe». La lamentazione, forma di preghiera del singolo e della comunità, ha sempre fatto fatica a trovare uno spazio adeguato nella teologia spirituale cristiana. Anche oggi, purtroppo, la regola sembra essere: «Impara a soffrire senza lamentarti!». Pare quasi che nella spiritualità e preghiera cristiane il lamento rivolto da Gesù al Padre al momento della sua morte in croce non sia un esempio degno di imitazione. La Bibbia, invece, a differenza di noi uomini –  troppo concentrati a dare risposte al problema della sofferenza – invita a versare, senza vergogna, gocce di pianto nell’otre di Dio: «Nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?» (Sal 56,9). Gocce in movimento che appartengono alla miseria dell’umano, portano gli occhi non a chiudersi, ma ad aprirsi misticamente: «La lacrima ha origine nel corpo, scorre dal corpo, ma non fa esattamente arte del corpo. È carne prediletta dall’anima, o anima corteggiata dalla carne» (J. L. Charvet). Dio sa che i nostri occhi hanno spesso sete di lacrime.

Nella pagina evangelica i discepoli non comprendono che Gesù dovrà «soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Pietro risponde così a Gesù: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Dura la risposta del Messia: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». La nuova traduzione italiana del verbo opiso, vieni dietro, invece di allontanati, rende giustizia al testo. Pietro non comprende il senso della sequela cristiana: la sofferenza trova l’ultima parola nella risurrezione. Gesù, infatti, non ci salva dalla morte, ma nella morte: morendo lui stesso, e facendo passare anche noi attraverso le nostre croci quotidiane, ci spalanca – anche su questa terra – le porte della vita eterna: «Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,26).

Gesù rimanda Pietro al suo posto: dietro al Maestro. Nessuno lo ha autorizzato a porsi davanti, a essere un consigliere. La sequela autentica è quella forgiata nel dolore, tra grido e speranza: «L’anima non avrebbe arcobaleni se gli occhi non avessero lacrime», recita un antico proverbio Minquass. Pietro è la roccia, ma un sasso può essere anche un’insidia: skandalon in greco vuol dire ostacolo, pietra d'inciampo. Satana, invece, significa “colui che divide”. Inoltre, il discepolo deve vivere nella logica della donazione, dell’amore, dell’essere per e non del possesso: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Rinnegare se stessi significa rinunciare a difendere esclusivamente i propri confini, ad arroccarsi nel proprio io per paura. L’evangelista userà lo stesso verbo quando racconterà del tradimento di Pietro: l’apostolo, per difendere se stesso, rinnegherà Gesù. L’uomo muore quando coltiva esclusivamente se stesso; vive profondamente, invece, quando pensa agli altri, soprattutto ai più “poveri”. In realtà Pietro sa cogliere la luce, ma è incapace di convivere col buio, di fidarsi di Dio, di cambiare mentalità. A tal proposito, mi piace citare la frase iniziale del brano Finirà bene di Ermal Meta: «Questo non è buio, sono solo gallerie».

don Giuseppe Pani