Più disastroso dell’errore stesso è il fatto di poter perdere chi erra
Attraverso la parabola
dei due fratelli e del padre buono, Gesù ci
rivela il Padre celeste che, sulla soglia di casa, desidera riabbracciare il
figlio debole e moralmente sfibrato:
vuole riportarlo alla vita, alla
gioia, alla speranza, alla certezza di
essere amato. Il padre
non lo giudica, conosce i limiti del figlio. Il suo perdono si manifesta
attraverso i gesti: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe
compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
Lo bacia, lo abbraccia e non gli permette di concludere il discorso, non gli dà
il tempo di dire: «Trattami come uno dei tuoi salariati». Anzi, lo ricopre dei
segni dell’identità filiale. «Il padre non si serve dell’occasione per fare la
pedagogia della colpa o per rendere il figlio dipendente dal suo perdono». Il padre sa che portare “indietro”
la persona al suo errore
significherebbe disumanizzarla. Organizza addirittura una festa: «“Prendete il
vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio
figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono
a far festa» (Lc 15,23-24). In “avanti” uno sbaglio si trasforma spesso in qualcosa di buono. Non
esiste errore che non si possa recuperare: «Più disastroso dell’errore stesso è
il fatto di poter perdere chi erra».
Giuseppe Pani, Pietre che rimbalzano sull’acqua. Cerchi di teologia del limite per vivere il nuovo presente, p. 89.