Pietre che rimbalzano sull’acqua, il nuovo libro di don Giuseppe Pani
Ci sono parole come pietre che fanno male. E altre che, pur essendo dure, arrivano al cuore scaldandolo. A queste ultime appartengono quelle lanciate, via social, ai suoi numerosi followers, da don Giuseppe Pani, docente di teologia morale e direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale Universitaria, la Cultura e l’Evangelizzazione Digitale. Sono maturate nella prima “pausa forzata” di Covid-19 ed ora planate nell’attualissimo libro: Pietre che rimbalzano sull’acqua. Cerchi di teologia del limite per vivere il nuovo presente (Effatà Editrice).
Sono “messaggi” dal variegato contenuto filosofico-teologico, spirituale, letterario e artistico, che si trasformano in autentici “massaggi” cardiaci e intellettuali. Con quel pizzico di provocazione che l’autore ammette: «Senza stravolgere il senso di una nota pagina evangelica ho scagliato pietre (le parole occorre “lanciarle” perché le cose accadano) per creare cerchi di etica (una micro-lezione per i miei studenti, una meditazione oppure un post sui social) capaci di dilatarsi nella rete il più possibile» (p. 17).
La prima provocazione riguarda la Chiesa, l’ambiente in cui l’autore si muove con abilità e intelligenza. È la Chiesa di Francesco che “parla” nel silenzio di una piazza San Pietro vuota o in crisi per le celebrazioni off limits di Pasqua. Ma anche quella che emerge dalla “bipolarità” della separazione tra la cultura teologica e la vita spirituale, venuta a galla durante il lockdown e che don Pani denuncia parlando di una «liturgodemia digitale con abusi di ogni tipo o religiosità popolare da remoto con ritorno indiscriminato a devozioni del passato». O che si presenta con forme bizzarre come quella del presbitero di turno che si è esibito «in danze caraibiche convinto di essere un concorrente di Ballando con le stelle» (p. 16).
Del
medesimo parere è il teologo Martin Lintner che, nella sua splendida
prefazione, scrive: «Sono stati percepibili vari modi di affrontare e gestire
la crisi. Alcuni non hanno potuto resistere alla tentazione di rispondere alla
sfida con un attivismo che non riusciva a cogliere la vera e propria sfida
religiosa ed esistenziale rappresentata dalla pandemia Covid-19. Altri invece
hanno testimoniato di credere in un Dio che è piuttosto una caricatura. […] E
altri ancora non hanno saputo sopportare il dramma di agonie e morti,
confessando la propria impotenza di fronte alla fragilità e ai limiti
dell’esistenza umana e rifugiandosi in forme di pietismo e devozione acritiche
e perfino premoderne» (p. 9).
A questa fragilità e alla vulnerabilità don Giuseppe dedica pagine suggestive partendo dal loro significato etimologico: «Il termine fragile ha origine dalla radice arcaica frag, che ha fatto nascere parole come frazione, frammento, frattura e così via. La nostra realtà si è “spezzata” all’improvviso a causa di un virus: il Sars-Cov-2 ci ha fatto comprendere che la vita e la morte coesistono dentro di noi» (p. 21).
La “fragilità” dalla Terra sale fin verso il Cielo e raggiunge il Dio “onnipotente”, dall’istante in cui si fa bambino a quello in cui muore in croce. Ma è lo stesso Dio che «s’infrange come un cristallo nella nostra vita. Un Dio che desidera entrare in relazione, tessere legami, diventare amico. Ciò lo spinge a creare. Così facendo diviene, però, “vulnerabile” in eterno; instaura, cioè, un’amicizia con chi – per sua natura – è fragile, inaffidabile, propenso spesso al rifiuto e alla chiusura» (p. 76).
Coraggiose le pagine sulla paura, il dolore e la morte rilette dal teologo tonarese che impugna decisamente l’interpretazione “fuori tempo” adottata da una parte del mondo ecclesiale: «Sono tornate di moda anche l’immagine di un Dio “castigatore” e l’idea di una sofferenza intesa come “volontà” di Dio: quanto più soffri, tanto più ti redimi» (p. 14). Il vero atteggiamento, puntualizza l’autore, deve ispirarsi a «una fede più autenticamente biblica» che «non svuota mai la sofferta realtà del morire esaltandola con la promessa del Paradiso; piuttosto, l’assume pienamente, ne porta il tragico peso soprattutto quando ci si trova di fronte a una morte violenta, prematura o causata da un’assurda infezione» (p. 95). Occorre tornare perciò a «una chiesa domestica, fondata sulla Bibbia (in una società laica non trascuriamo il suo ruolo di libro che educa) e meno idolatrica» (p. 19).
Ed è la corretta interpretazione della Parola di Dio che può immettere una nuova boccata di vita: «Spesso la speranza si genera nella disperazione (la notte) come un rimbalzo che si riscontra dopo aver toccato il fondo dell’abisso (la tenebra). Quando sembra sparire nel nulla, va lasciata riemergere, va scovata tra le anse della sofferenza che scorre (la luce), perché possa annunciare di nuovo se stessa» (p. 27).
Una speranza che prende ispirazione dal “bene” fiorito nel dolore e con cui don Giuseppe conclude le sue riflessioni: «L’evento Coronavirus ha prodotto un “miracolo”: la carità evangelica di molti medici, religiosi, volontari, governanti, operatori vari ha convertito ai poveri, alla carne sofferente di Cristo nel popolo (espressione di papa Francesco), una minoranza di persone prima ipervirtualizzate e disincarnate. […] Il miracolo del piccolo gregge è in atto: non perdiamo quest’opportunità di rinascita alla sequela di Cristo. Il mondo ecclesiale si lasci illuminare dalla fede del sarto de I Promessi sposi: “Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene”» (pp. 104-105).
Con questo nuovo testo don Pani ha felicemente fatto… 13! Come 13 sono i capitoli in cui rimbalzano le sue pietre, “preziose” per quanti cercano una luce che rischiari il buio che avvolge le loro menti e i loro cuori.
Valerio Bocci
Scrittore, già direttore della casa editrice Elledici,
esperto di comunicazione della fede ai ragazzi e ai giovani
Il libro è nelle librerie dal 3 dicembre e verrà presentato in videoconferenza nel prossimo mese di gennaio.