“Ti conosco, mascherina?” e “mi conosco, mascherina?”
Per quanto si possa parlare di una condizione tecno-umana, nel contesto odierno occorre porre attenzione alle tecnologie pervasive e persuasive. Esse, «alla faccia del libero arbitrio, automatizzano le nostre scelte giornaliere: gli algoritmi informatici suggeriscono tendenze, libri e articoli da leggere, personaggi da ammirare, oggetti da acquistare, viaggi del pensiero, persino chi aggiungere alla nostra cerchia di amici»[1].
Da evidenziare, poi, che il nostro “cerchio” digitale non è mai uguale a quello di un altro utente: è personalizzato. Il rischio, quindi, è quello di un effetto bolla: «Tanto più conosco e agisco digitalmente, tanto più il sistema, la macchina, la rete, mi suffragano nelle scelte, mi restituiscono consenso e mi illudono, chiudendomi in una bolla, che tutti la pensino come me»[2]. Vivendo in una bolla, rischiamo di isolarci e radicalizzarci: «Nello spazio online l’individuo tende [...] a plusumanizzarsi, ossia a radicalizzare la propria umanità trascurando i filtri tipici di una socialità tradizionale; evita il confronto e la reciproca comprensione, consolida, a forza di contenuti a supporto (reazioni e condivisioni), le proprie posizioni e limita così feconde opportunità tipiche del legame umano come la conciliazione, l’accordo, il compromesso. Questa radicalizzazione dell’esistenza fa sì che l’individuo spinga sempre più verso il proprio mondo di riferimento, modellando la propria “socialsfera” alla propria visione culturale»[3].
Tutto
ciò annienta la cultura dell’incontro. I social media, invece, sono anche
uno spazio di condivisione, aperto alla diversità. Il Dicastero per la
Comunicazione afferma: «Ognuno può
contribuire a realizzare questo cambiamento impegnandosi con gli altri e
sfidando se stesso nell’incontro con gli altri. Come credenti, siamo chiamati a
essere comunicatori che si orientano intenzionalmente verso l’incontro. In
questo modo, possiamo ricercare incontri che siano significativi e duraturi,
invece che superficiali ed effimeri. In effetti, orientando le connessioni
digitali all’incontro con persone vere, alla creazione di rapporti veri e alla
costruzione di comunità vere, di fatto alimentiamo la nostra relazione con Dio»[4].
La comunicazione, poi, risulta “falsata” anche a causa di un "desiderio malato" di approvazione sociale. I moderni device digitali rischiano di allontanare sempre di più i nostri visi dalla “naturalezza” del faccia a faccia: «Quando ci si fa un selfie e più in generale una fotografia gli interventi scattano automaticamente già mentre si inquadra il volto grazie agli algoritmi che presiedono alla definizione dei visi e alla loro ottimizzazione. E poi soprattutto si agisce volontariamente e liberamente quando si applicano i filtri per avvicinare l’immagine dello schermo al modello ideale, con esiti variabili tra cui è frequente l’insoddisfazione e quindi il disagio che può generare problemi psicologici anche gravi. Il termine coniato per indicare questa patologia è «dismorfia da Snapchat»[5], che potrebbe anche portare a un inutile ricorso alla chirurgia estetica.
Postare un selfie per piacere per forza agli altri, essere cioè ossessionati dai like, è un sintomo di profonda insicurezza, di solitudine interiore: un vuoto che non può essere colmato dal mondo virtuale, abitato da "amici" che non conoscono la narrazione della nostra vita. Qualche studioso arriva addirittura a definire così il concetto di “postare”: «L’adozione di determinati abitudini, gesti e comportamenti che hanno lo scopo di proiettare un’immagine positiva (ovvero una che riceva feedback positivi), allo scopo di dimostrare agli altri che siamo felici, sebbene non sia davvero così o non ne siamo davvero convinti”»[6].
Al di là di questa
valutazione forse estrema, esiste un pericolo concreto per le nostre esistenze: una costante mancanza di autenticità. "Indossare" dei filtri, delle
“maschere tecnologiche”, dovrebbe portarci a riflettere sulla nostra identità e
non soltanto su quella di chi, nel contesto onlife, si rapporta a noi: «Memori
del celeberrimo “ti conosco, mascherina!”, provocatoria espressione che rimanda
allo svelamento della vera identità, risulta forse più appropriato sdoppiarla
nelle domande “ti conosco, mascherina?” e “mi conosco, mascherina?”»[7].
Massimo Lay
Laboratorio di tecniche e dinamiche
della comunicazione interpersonale.
Quali relazioni nell’era del digitale
e dell’Intelligenza artificiale?
Docente: Prof. Giuseppe Pani
Istituto Superiore
Scienze Religiose
Sassari - Tempio Ampurias
[1] G. Pani, Tutti contro uno. Un’intelligenza spirituale per staccarsi dalla folla degli haters, Edizioni Sanpino, Pecetto Torinese (To) 2021, 14.
[2] L. Peyron, I luoghi dove stiamo crescendo, in «CredereOggi», 2 (2020), 27.
[3] M Padula, Comunica il prossimo tuo. Cultura digitale e prassi pastorale, Paoline, Milano 2020, 29.
[4] Dicastero per la Comunicazione, Verso una piena presenza. Riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media, 29 maggio 2023, n. 24.
[5] A. Nizzoli, Narcisi nella rete. L’immagine di sé nell’epoca dell’immagine, Mondadori, Milano 2021, 167.
[6] L. Rodriguez, L’affanno di apparire sui social network, https://lamenteemeravigliosa.it/laffanno-di-apparire-sui-social-network/, 22-01-2024.
[7] A. Nizzoli, op. cit., 181.